Penisola Sorrentina

Il gesto che fa il mondo
Durante una delle sue lezioni più affascinanti, la professoressa Amalia Signorelli – antropologa colta e acuta, erede di una grande tradizione italiana di studi demoetnoantropologici – parlava del valore simbolico della formula “come, così…”. Lo faceva con semplicità, come chi apre una finestra su un paesaggio familiare ma mai visto davvero. “Come fu fatto allora, così noi oggi ripetiamo quei gesti, e avremo lo stesso risultato”: questa frase, spiegava, è una delle chiavi più potenti per comprendere il funzionamento del rito in ogni cultura. È il principio formale che regge l’architettura del rituale, la sua capacità di tenere insieme passato e presente, mito e realtà quotidiana.
Ma cosa significa davvero questa struttura simbolica? Non si tratta di una semplice imitazione, né di una rappresentazione teatrale o commemorativa. Al contrario: la ripetizione rituale ha un valore performativo. Fare come allora significa fare davvero, adesso. Il gesto rituale non è segno di qualcosa: è azione che trasforma il mondo.
Su questa intuizione si innesta la lezione di Ernesto de Martino, che nel suo percorso intellettuale ha interrogato a fondo il senso del rito e del mito nelle società tradizionali. Per de Martino, il rito è un ritorno all’illo tempore, al “tempo originario” in cui gli dèi, gli spiriti o gli antenati compirono per la prima volta i gesti fondatori dell’ordine cosmico e sociale.
Ogni volta che il rito si ripete, quel tempo mitico si riattualizza: il passato sacro si rende presente, agisce nel qui e ora. Non si tratta di una memoria nostalgica, ma di un atto concreto, che rifonda il mondo e stabilizza l’essere.
Qui entra in gioco una parola fondamentale nel pensiero di de Martino: “presentificazione”.
Non si tratta solo di ricordare o di mettere in scena ciò che accadde “allora”. Il rito è molto più di una rievocazione o di un simbolo rappresentativo. È, piuttosto, un’azione efficace che rende presente quell’origine, un atto che attualizza nel presente la potenza fondatrice di un evento mitico, salvifico o ordinatore. La presentificazione è ciò che permette al rito di essere non solo significante, ma efficace: ciò che accadde nel tempo degli inizi si fa presente, si manifesta, si rende attivo e operativo nel mondo della vita.
Nel suo lavoro su religione, magia e lutto – “Il mondo magico” (1948), “Morte e pianto rituale” (1958), “La fine del mondo” (1977) – de Martino insiste su questa funzione fondamentale del rito, ossia contenere la crisi, strappare l’essere umano dalla minaccia della dissoluzione, del crollo del senso, attraverso una connessione attiva con un tempo mitico. “Come allora, così ora” vuol dire che ciò che ha salvato o fondato l’umanità in un momento originario può essere riattivato per fronteggiare il caos del presente.
Questa operazione culturale di contenimento e di rigenerazione si può osservare in numerosi casi. Ad esempio, nel pianto rituale per i morti, le parole, le formule e i gesti delle donne che piangono richiamano le prime morti della comunità, i dolori archetipici, inaugurali. Il lutto individuale si iscrive in una grammatica collettiva del dolore, in cui il presente viene inglobato in un orizzonte culturale che lo rende dicibile, cioè sopportabile.
La voce che grida, ripetendo i nomi, i gesti, i momenti, è la voce di una genealogia affettiva che salva dal crollo, restituendo senso alla perdita. Oppure, ancora, nella magia popolare, il gesto efficace non è un gioco o una messinscena: funziona perché ripete – con rigore e precisione – un modello originario, appunto. Il potere non è nel gesto in sé, ma nella sua capacità di conformarsi a una matrice primordiale, riconosciuta come dotata di potenza.
Ciò significa che il gesto magico non è “simile a” quello degli antenati, ma è lo stesso gesto che agisce ancora oggi.
In questo senso, il rito è un ponte tra l’essere-nel-mondo e il rischio della crisi del presente. È un dispositivo culturale che aiuta l’essere umano a ritrovare il proprio posto nel mondo, nel momento in cui quel posto appare minacciato, instabile o perduto. Da questa prospettiva, la presentificazione permette di abitare il tempo con senso, di trasformare il presente da minaccia a occasione di rigenerazione. Non è un meccanismo automatico, ma un’opera culturale e simbolica ad altissima intensità: attraverso la forma codificata, l’essere umano ritrova un appiglio, una possibilità di restare al mondo.
Il gesto rituale, quindi, è ciò che consente alla comunità di affrontare le soglie dell’esistenza – nascita, morte, passaggi di status, crisi collettive – richiamandosi a un ordine superiore e immutabile. In questo senso, il rito è forma che crea efficacia: non per il suo contenuto materiale, ma per la ripetizione codificata, la messa in forma di un’azione
che si carica di potere attraverso la sua fedeltà a un modello originario. La ripetizione rituale è potente proprio perché non è nuova: è il ritorno dell’archetipo.
Il “come, così…” non è solo una formula linguistica: è una visione del mondo. Dice che esiste un legame profondo tra le azioni umane e un ordine cosmico primordiale. Dice che la forma è sostanza, che la precisione del gesto è necessaria per la sua efficacia simbolica. Dice che il rito non è un’aggiunta decorativa alla vita, ma il suo stesso fondamento nei momenti cruciali.
In un’epoca in cui la ripetizione viene spesso svalutata come automatismo o come perdita di autenticità, questa lezione antropologica ci invita a ripensare il valore della forma e della reiterazione. Non tutto ciò che si ripete è sterile perché, a volte, solo ciò che si ripete può trasformare. E allora, come allora, così ora: è nel gesto che fa il mondo – un gesto che salva, che riattiva l’origine, che fonda e rifonda l’essere. Un gesto che non solo rappresenta, ma presentifica.

L’architettura del rito: ripetere per agire
Il “come, così…” è una formula silenziosa e invisibile che abita ogni rito; è una sorta di architettura nascosta, fatta di gesti, parole, ritmi e azioni che si ripetono con ostinata precisione. Come venne celebrato il passaggio delle stagioni, così ancora lo celebriamo oggi, per cui è un ponte tra il tempo degli antenati e il presente, tra il mondo degli dèi e quello degli uomini.
Nei riti di passaggio – dalla nascita alla morte, dall’infanzia all’età adulta – come nelle feste che segnano l’alternarsi delle stagioni, non conta tanto l’originalità quanto la conformità.
Ciò che si fa è già stato fatto: non si inventa, ma si ripete. E questo accade non per inerzia, bensì per rigenerazione. Il rito, infatti, non è un ricordo, ma un’azione efficace: non narra soltanto un cambiamento, ma lo produce.
Evidentemente, la potenza del rito sta proprio in questa ripetizione. Per questo le feste stagionali – come il solstizio d’inverno, la primavera agricola, i raccolti d’autunno – sono momenti in cui si torna a fare ciò che gli antenati fecero: accendere un fuoco, danzare, offrire, purificare, vestire di nuovo la terra e il corpo. È una pedagogia del gesto, una tecnica simbolica che fa coincidere il calendario con il cosmo, il tempo umano con il tempo sacro.
Lo storico delle religioni Mircea Eliade parlava del rito come di una riattualizzazione del mito, che per lui non è una favola o un racconto morale, quanto piuttosto la narrazione di un’origine: “in illo tempore”, gli dèi o gli antenati fecero qualcosa, crearono il mondo, insegnarono, fondarono, morirono, rinacquero. Il rito non fa altro che ripetere quell’atto primordiale, riattualizzandolo ogni volta.
Nel fare ciò, il rito protegge il mondo dal caos, nel senso che ogni volta che un rito viene compiuto, il tempo profano si interrompe e si apre una soglia verso il tempo mitico, quello originario. Non importa quando si svolge, ma come: se conforme al modello, il rito rinnova il mondo; ed è per questo che le società tradizionali – e non solo – pongono una cura estrema alla forma rituale, perché ogni dettaglio ha un senso e ogni errore può compromettere l’efficacia.
In questa prospettiva, il rito non è un semplice simbolo o una convenzione culturale, ma una tecnologia del sacro, un dispositivo per fare agire l’invisibile nel visibile. Pertanto, non rappresenta, ma fa. Infatti, è nel fare (e nel rifare) che la società trova ordine, senso e durata. In altre parole, ripetere non è ripetitivo, bensì performativo. La ripetizione rituale non è sterile copia, ma ripresa attiva di un modello vivo, perché proprio nella ripetizione sta l’efficacia del rito: ciò che ha funzionato una volta, funzionerà ancora, purché rifatto nel medesimo modo. Il rito è un codice condiviso, una grammatica del gesto che stabilisce il legame tra chi agisce e ciò che viene agito, per cui non c’è spazio per l’improvvisazione, ma solo per la precisione.
Questa struttura formale è ciò che rende il rito riconoscibile e quindi rassicurante, dal momento che custodisce il senso e garantisce la continuità. Nel rito si sa cosa fare, quando, come e perché. E proprio per questo, il rito è anche lo spazio in cui il singolo diventa parte di un tutto, in cui la soggettività si sospende per lasciar parlare l’archetipo. Il corpo individuale diventa corpo collettivo e la voce singola si unisce al coro del tempo, perché, con il rito, non si è più soli, ma si compiono gesti e si pronunciano parole che non sono del singolo, ma della comunità, del mito, della tradizione: l’individuo, cioè, trova forza nel farsi parte di un ritmo e di una forma collettiva.
In un’epoca come la nostra, in cui tutto cambia rapidamente e spesso senza radici, i riti – quelli religiosi, civili, famigliari, o anche laici – continuano a svolgere un ruolo fondamentale. Sono i gesti che ci riportano a casa, le liturgie minime che danno forma ai giorni, come accendere una candela, fare il presepe, tagliare la torta di compleanno, salutare con un bacio. Piccoli “come, così” che ci legano a chi ci ha preceduto e ci guida nel presente. Potremmo dire che il rito è un’arte del tempo, nel senso che permette di ripetere per agire, di rifare per generare, di ricordare per rinnovare.

Tradizione: la ripetizione che crea continuità
La tradizione non è ciò che resta immobile nel tempo, ma ciò che viene scelto per essere ripetuto. In antropologia, essa non è una reliquia (né un relitto o una sopravvivenza), bensì una pratica viva, una ripetizione selettiva e performativa. In “Pouvoir sur scène” (1980), Georges Balandier ci invita a riflettere su come la tradizione non conservi il passato, ma lo reinventa costantemente per legittimare il presente. Eric Hobsbawm, con la sua celebre espressione “invenzione della tradizione” (1983), ci ricorda che anche le usanze più antiche possono essere costruzioni recenti, create per dare radici a scelte politiche o sociali contemporanee. E Jack Goody, in “The Domestication of the Savage Mind” (1977) ci mette in guardia contro l’illusione di una trasmissione culturale neutra: la tradizione è sempre un atto di selezione, di potere, di memoria orientata.
Nel quotidiano, tuttavia, la forza della tradizione si manifesta in un’espressione semplice e potente: “si è sempre fatto così”, che non è un ragionamento, ma una legittimazione, nel senso che ciò che si ripete da generazioni diventa giusto, naturale, persino inevitabile.
D’altronde, la ripetizione è rassicurante. Infatti, nel gesto che si rinnova ogni anno, ogni stagione, ogni cerimonia, la comunità riconosce se stessa. In tal modo, il passato non viene solo evocato, ma incorporato. E non è un caso se “tradere”, in latino, significa “trasmettere”, ma anche “consegnare” e “tradire”: è la ragione per cui ogni trasmissione è anche una trasformazione.
Pensiamo ai riti religiosi, alle feste popolari, ai canti di lavoro o alle tecniche artigianali: ogni elemento di questi mondi porta con sé una forma di narrazione implicita, fatta non solo di parole ma di corpi, di ritmi, di oggetti. Nella processione si racconta un’appartenenza e non importa che le origini siano incerte, perché ciò che conta è la continuità percepita. Il sapere delle mani e dei gesti vale quanto un archivio, perché la memoria è anche nel fare.
Ma proprio perché la tradizione è potente, essa può essere anche strumentalizzata, infatti Hobsbawm ha mostrato come molte “antiche” tradizioni siano nate nel XIX o XX secolo, come il kilt scozzese, la monarchia britannica con le sue liturgie neogotiche, o certi riti nazionalisti europei. Queste invenzioni non sono truffe, ma risposte a bisogni di identità, spesso legate a momenti di crisi o di transizione. Il passato viene evocato come uno specchio sicuro in cui riconoscersi, anche quando quel passato è un collage recente.
La tradizione, quindi, non è semplicemente ciò che si eredita, ma è innanzitutto ciò che si sceglie di ripetere. È un atto di riconoscimento reciproco, un modo per dire “noi” attraverso il tempo, dacché anche l’invenzione può essere vera, sempre che sia condivisa, vissuta e capace di creare legami. Il “come allora, così ora” della tradizione non è perché nulla cambi, ma perché continui la possibilità di appartenere.

Immagine di copertina: “La Processione in piazza San Marco”, di Gentile Bellini, Gallerie dell’Accademia, Venezia.