Penisola Sorrentina

La dott.ssa Mariella De Angelis, santanellese doc, nel 2009 si laureò con una tesi su Roberto De Simone e La Gatta Cenerentola, incontrandolo più volte e intervistandolo.  La redazione cultura di Positanonews propone uno stralcio della tesi con l’intervista, convinti che in esso è contenuto il testamento morale e letterario di questo grande personaggio della Napoli odierna, al quale non smetteremo mai di rendergli omaggio.

Il suo nome è indissolubilmente legato alla rappresentazione della Gatta Cenerentola,
considerata il suo capolavoro. Che rapporto c’è tra la rappresentazione teatrale e il
patrimonio orale in cui essa affonda le proprie radici?
Il problema della Gatta Cenerentola per quel che riguarda il linguaggio riguarda proprio
il rapporto tra oralità e scrittura, tra il teatro nel momento in cui lo si rappresenta e il
teatro in cui lo si legge in un testo classico.
La Gatta Cenerentola deriva da anni di esperienza da me avuti con la Compagnia di
Canto Popolare in cui il significato è stato completamente travisato in quanto la gente
credeva, o perlomeno la maggior parte del pubblico, ha creduto che io tentassi con
quell’operazione di riproporre la cultura popolare con una nuova serie di esecuzioni, ma
la faccenda non era quella…
La Compagnia di Canto Popolare era il riflesso di una tradizione letteraria già filtrata, ed
io tentavo di dare a questa tradizione filtrata una componente diremo non filologica ma
di carattere stilistico più vicina al modo di cantare contadino che c’era nella Campania:
era tutta qui l’operazione, ma io non ho mai detto o consigliato ai componenti della
Compagnia di eseguire dei canti popolari autentici facendo il verso alle popolane o alle
contadine.
La Gatta Cenerentola è il superamento di questo stadio in cui, praticamente, io ho
tentato di dare una visualità, di visualizzare quanto avevo già fatto sulla vocalità con la
Compagnia di Canto Popolare: essa è, dunque, il tentativo di dare immagine a favole che
erano documentate anche da una tradizione letteraria.
Ecco, la visualizzazione del mondo popolare è molto difficile, perchè non si tratta di
rappresentare dei personaggi, bensì di mettere in scena qualcosa che non ha a che fare
con il tempo reale, ma con il tempo della metastoria, del mitico. D’altro canto, una
consequenzialità di accadimenti attraverso uno spettacolo era impossibile da ipotizzare,
per cui ho pensato a una rappresentazione narrata musicalmente anche in maniera colta e
ad una serie di dialoghi che facevano capo a diversi modi di comunicare verbalmente
attraverso il dialetto naturalistico, attraverso il dialetto ritualizzato dei canti, attraverso
canti popolari riportati dagli etnografi nell’Ottocento, ma soprattutto attraverso canti
rilevati dalla tradizione orale, cioè ripresi direttamente: è, dunque, una quantità enorme
di elementi.

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E’ un lavoro complesso che somma tanti registi, somma il registro colto e il popolare…
Diciamo “colto” per dare un nome alla tradizione scritta, ma la cultura popolare è
ugualmente colta, è colta sul versante orale, vale a dire che per attivarsi ha bisogno di
una grande esperienza, di una grande memoria del materiale. Chiaramente nessuna
persona che non abbia una memoria dei repertori può eseguire improvvisando. Ecco,
questo era uno dei motivi per cui io sconsigliavo alla Compagnia di Canto Popolare di
fare pezzi di una tradizione orale che invece si esegue nel momento preciso della festa,
secondo un codice momentaneo che viene mano mano a costituirsi attraverso
l’improvvisazione, che, perciò, non è un’improvvisazione diremmo così, qualunquistica,
ma un’improvvisazione che si ottiene assommando i materiali che vengono alla
memoria.

Com’è nata l’idea di mettere in scena lo spettacolo?
La decisione è venuta fuori dalla crisi creatasi con la Compagnia di Canto Popolare,
quando ho capito che oramai quel materiale veniva scambiato per autentica espressione
popolare e nascevano figli e nipoti che ripetevano stupidamente quei materiali portando
in giro un’etichetta di popolare che popolare non era. Chiaramente mancava la
componente storica e consapevole del conflitto storia-metastoria per poter programmare
un’operazione del genere.

Quali erano i suoi rapporti con il teatro dell’epoca?
Io sono di famiglia di teatranti, innanzitutto. Il teatro che allora si faceva, però, mi
interessava poco, perchè faceva capo al teatro naturalistico di Eduardo De Filippo e il
teatro di Eduardo non mi ha mai interessato per quello che mi riguarda e come musicista
e come musicologo e come antropologo. E allora, ecco che Gatta voleva essere anche
una reazione ferma e chiara basata sulla tradizione di un teatro che, attraverso i secoli,
non ha mai praticato il teatro naturalistico in quel modo, ma in tutt’altre maniere e
secondo altri stili o stilemi.

Mi potrebbe descrivere come ha dato vita allo spettacolo, come si è articolata la
scrittura del testo e la composizione delle musiche?
Il processo creativo non si può descrivere…

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Il testo della Gatta Cenerentola pubblicato dall’Einaudi è autonomo, contiene degli
elementi che in scena non sono rappresentati…
Questo testo ha delle didascalie che furono scritte pensando che io mi accingessi a
comunicare su un altro livello, che non è quello teatrale e non è quello del testo scritto da
me. Si trattava, in ogni caso, di un prodotto letterario e allora ecco che è uscita fuori la
pubblicazione della Einaudi.

Quali operazioni le hanno consentito di dare corpo al processo creativo, traendone lo
spettacolo che è poi riuscito a realizzare?
Mah, ho dovuto cominciare a costruire le voci, prima per la Compagnia di Canto
Popolare, in secondo luogo per la Gatta Cenerentola. Chiaramente mi sono servito di
attori duttili, che avessero delle peculiarità vicine alla possibilità stilistica di uno
spettacolo del genere e dal punto di vista gestuale e dal punto di vista vocale.

E l’ultima rappresentazione è andata in scena nel 2000 o ci sono ancora compagnie che
portano avanti lo spettacolo?
No, in generale io non do il permesso perchè, trattandosi di un lavoro in cui lo stile è
così importante, la rappresentazione rischia di diventare uno spettacolo di prosa con
musiche, che non ha nulla dello stile che si richiede. Se, invece, si tratta di farlo con i
bambini, do il permesso, perchè in questo caso non c’è lo scopo di fare teatro di
repertorio.

Che valenza può avere il teatro nell’educazione, e, dunque, anche nella scuola ?
Il teatro è ancora una grande costruzione secolare che ci permette di capire i livelli di
comunicazione che abbiamo oggi nella società che sono alquanto confusi e babelici.
Direi che il teatro è l’unica maniera per capire i livelli di comunicazione. Noi
attraversiamo un periodo storico in cui la valenza teatrale è oramai appannaggio della
politica perchè i politici oggi sono quelli che fanno teatro perchè hanno un mezzo di
diffusione diabolico che è la televisione. Ora, è chiaro che i media risultano molto
impressionati da questo mezzo che rappresenta l’ufficialità. Non per nulla oggi il
presidente del Consiglio è il maggiore proprietario delle aziende televisive, perchè da
quel canale risulta facile procurarsi il consenso… Ora, il teatro ha il potere di contrastare
non solo quest’egemonia ma anche questi modi falsi di comunicare, questa falsa
simpatia, questa falsa bonomia, questa falsa etica, questa falsa socievolezza del parlare,

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questo modo di persuasione indotto che ha addirittura del pornografico. Una forma di
violenza pornografica, laddove per pornografia intendo appunto la maniera fittizia di
comunicare usando elementi che vengono deviati, che fanno parte di una devianza
propria della nostra cultura. Purtroppo il teatro in Italia è agonizzante e non viene
finanziato e appoggiato perchè produce un tipo di comunicazione che al potere non
interessa e perciò si danno soldi solo a ciò che al potere interessa. Il teatro che viene
prodotto è appannaggio dei clienti e dei persuasori comunicativi che sono in contatto con
i potenti dei mass media, ovvero con il potere; per cui, se io voglio fare teatro, non mi
danno manco una lira ed invece vengono finanziati spettacoli, attraverso una legge che è
ancora più malefica del teatro prodotto male, in quanto privilegia molto spesso persone
che producono cattivo teatro. Questo meccanismo permette di prendere soldi che
dovrebbero servire a produrre teatro, solamente a persone che producono operazioni
fittizie, che poco hanno a che fare col vero teatro, e, tuttavia, riescono ad ottenere il
massimo delle sovvenzioni. Questa legge non guarda assolutamente alla qualità o
all’elemento culturale del teatro ma solamente alla quantità: devo fare tanti spettacoli,
poi di che cosa trattino questi spettacoli non interessa a nessuno.

Lei pensa dunque che la qualità delle produzioni attuali sia insufficiente?
Sì, infatti, non ci sono più attrici, non ci sono più attori né scuole, non ci sta più niente;
specialmente a Napoli il regime bassoliniano ha favorito questo degradarsi del teatro
proprio perché ha concesso il potere di gestire il teatro a persone che garantiscono il
consenso a Bassolino stesso.

Tornando al valore educativo del teatro, lei pensa che esso possa favorire lo svilupparsi
del senso critico nei ragazzi?
La cosa che bisogna insegnare ai ragazzi che vanno a teatro oggi è che il teatro non è
quello del divo televisivo che fa incassi record, perché quel tipo di spettacolo fa soltanto
comodo al potere e non ha contenuto, e bisogna, dunque, distinguerlo dal vero teatro.
Il vero teatro si fa coi testi di veri drammaturghi e non con testi scritti da persone
qualsiasi. Il vero teatro lo fa il drammaturgo e questo implica la consapevolezza cui si
giunge attraverso un lavoro difficilissimo che riguarda i linguaggi, che riguarda
l’esperienza del corpo, che riguarda l’esperienza degli attori, dei cantanti, di come
cammina la voce, di quali sono gli spazi teatrali…

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Oggi si improvvisano tutti registi e attori, e questo avviene anche perchè i contenuti non
ci sono, chiunque può fare teatro: prende a modello una trasmissione televisiva con
l’ospite che parla a vanvera, il fatterello di giornata, l’ospite d’ onore, la canzonetta, etc. e
questo viene spacciato per teatro!

Tra le diverse forme di comunicazione che lei ha utilizzato, ce n’è una che privilegia
rispetto alle altre? La musica, per esempio?
Il teatro. Il teatro è fatto di musica e di parole purchè siano elementi derivati da un
progetto preciso, da un pensiero, un modo di contrapporsi al teatro della chiacchiera.
Bisogna fare capo ai grandi modelli e i grandi modelli ci sono e sono i classici: dal teatro
greco a Shakespeare a Moliere ai nostri italiani, al teatro romantico, e, se si vuole, anche
al teatro napoletano purchè si evitino le trappole e i pericoli del teatro naturalistico.
Perchè? Perchè oggi la televisone induce a creare attori che si esprimono con linguaggi
naturalistici, così come si parla, il che non permette di recitare un testo classico: i testi
classici o i testi teatrali, infatti, non fanno capo a un parlato quotidiano ma ad un parlato
costruito cioè letterario che solo apparentemente sembra popolare.
Pensi al teatro di Viviani, per esempio, sembra popolare, invece si tratta pur sempre di
teatro letterario.
Il teatro letterario ha bisogno di attori che abbiano effettuato uno studio della dizione e
della vocalità e questa, per formarsi, ha bisogno di anni di esperienza.
Nel fare teatro non si può parlare normalmente come si fa nelle fiction televisive o in
queste produzioni in cui non si capisce mezza parola di quello che si dice. Recitare in
teatro, inoltre, significa recitare senza microfono, all’italiana…Oggi, invece, recitano tutti
col microfono il che altera anche la comunicazione perchè ci porta a ricondurre
immediatamente tutto ai prodotti di consumo, alle fiction di Maria De Filippi e simili.

I suoi studi etnomusicologici hanno tratto materiale e vitalità dalle sue “scorribande” in
Irpinia o nel casertano dove raccoglieva dalla voce dei narratori i racconti orali di
tradizione, da dov’è nata questa necessità?
In realtà mi sono formato alla scuola di Ernesto De Martino e perciò non mi fido di ciò
che mi viene raccontato attraverso i documenti scritti ma preferisco attingere alla
conoscenza diretta dei canti e delle altre manifestazioni perchè è necessario coglierle nel
momento rituale in cui queste cose avvengono; c’è una volontà e una necessità di
eseguirle che riguarda non solo un aspetto ludico ma anche un aspetto esistenziale. Solo

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così si può capire anche la funzione esistenziale del teatro e la posizione che deve
assumere l’attore nel momento in cui sale su un palcoscenico che è il luogo dove egli
può esprimersi con sé stesso e dar voce al progetto dell’autore di cui diventa il tramite.